Prefazione
di Filippo Ceccarelli
La rivincita della parola. In rima, per giunta. Anzi, di più: la vendetta dell’endecasillabo, il verso più nobile, Dante, Ariosto, Leopardi. La vendetta della poesia contro la civiltà dell’immagine, il trionfo della poesia sulle smargiassate retoriche e sul servilismo encomiastico che di norma accompagnano il potere. Un vero poema su Silvio Berlusconi, sì, un poema del genere antico, “Le donne e i cavalier”, “Canto l’arme pietose”, “Vorrei cantar quel memorando sdegno”; un poema irato e burlesco, esaustivo e tuttavia sospeso nell’attualità, ora altisonante, ora esilarante, comunque inesorabile.
Tale è l’opera di Carlo Cornaglia, e una volta detto che si tratta di un lavoro a tal punto originale da potersi definire bizzarro si potrebbe addirittura chiudere qui.
Sennonché, pure nel Seicento, gli incauti prefattori regolarmente cadevano nella tentazione di paragonare i poeti ai fabbri: e “questi tengono pure afferrato colle tanaglie in mano il ferro rovente, e ne distolgono i martelli. Danno con essi tre o quattro colpi a vuoto sopra l’incudine, non senza qualche armonia, di cui ricreatisi, tornano al lavoro”. E in questo modo, appunto, piace qui immaginare l’ingegner Cornaglia che leggendo il giornale durante le sue lunghe passeggiate, o guardandosi il Cavaliere in televisione, improvvisa tre o quattro rime a vuoto, non senza armonia. Dopodiché, ricreatosi, pare di scorgerlo mentre acchiappa la sua penna stilografica e si mette a forgiare gli infuocati endecasillabi.
Chi segue da tempo il suo lavoro sa che a quell’elevato metro a undici unità foniche egli è giunto per gradi, slittamenti, trasposizioni, complicati processi artistici, politici, forse anche psicologici.
Fino a qualche tempo fa egli era conosciuto come un giocoliere del verso ottonario, ritmo tutto sommato abbastanza innocuo, da ricorrenze famigliari e ricordi d’infanzia, qui comincia l’avventura/ del signor Bonaventura. Vero è che, dagli e dagli, Cornaglia aveva ben arrotato e intossicato quel metro, talché in certi passaggi lo sberleffo a otto sillabe finiva per scorrere come la soda caustica.
E tuttavia il salto verso la prosodia alta può anche trascendere la volontà dell’autore e, dato l’argomento, ha probabilmente a che fare con le modificazioni della vita pubblica. Nel senso che oramai la vicenda berlusconiana si è fatta lunga, solenne, impegnativa; e prima ancora del potere, è l’immaginario del Cavaliere che richiede, pretende, chiama in causa e si trascina dietro qualcosa di evoluto e al tempo stesso già visto e sentito. Soggetti, figure, ispirazioni, forme, ritmi, contenuti: di questi ritorni in avanti vive del resto la letteratura, e di spostamenti inattesi.
Va da sé che Cornaglia ha composto un’opera immane, e per apprezzarla al pieno occorre possedere il santo gusto della curiosità e l’allegra pazienza della stramberia – tra parentesi: ciò che non possiede Berlusconi.
Enorme è infatti la mole di dati che il poema contiene e ancor più la cura, la precisione, l’acribia con cui il poeta ha ricostruito anno per anno l’esistenza del Cavaliere. Dietro ogni canto senti una mole impressionante di letture; dietro ogni quartina si coglie l’attenzione maniacale ai dettagli entro cui a volte si cela l’enigma biografico di un personaggio a suo modo faustiano qual è Berlusconi. Intrecci famigliari, sentenze di tribunale, indirizzi delle case abitate in gioventù, denominazioni e sigle di società, numeri di conti correnti, piazzamenti del Milan nei vari campionati, collaboratori passati a miglior vita. Vive questa “Berlusconeide” di illuminanti minuzie tipo le lodi salesiane di don Furlotti; umbratili accenni sul ruolo del padre di Previti; controverse deposizioni come quelle del teste “Omega”; estemporanee sceneggiate con lacrime al cineteatro Brancaccio. Un labirinto di ricordi in rima: la scrivania di Vespa, la sciatalgia di Vicenza, i menhir di villa La Certosa, perfino Sgarbi e la fidanzata spediti in missione a Kabul. Tutto vero e documentabile. Informazioni dimenticate o che quasi nessuno conosce, e tuttavia qui di seguito a disposizione – impersonando Cornaglia un’enciclopedia ragionata e un’accortissima bibliografia del berlusconismo a ritmo di poesia cavalleresca.
L’effetto è straniante, così come d’altra parte appare straniante la vita del Cavaliere. Dalla torta di mele di mamma Rosa fino al terremoto dell’Aquila, dall’ordinanza anti-mutande per il G8 di Genova fino ai fasti di Papi e alle festicciole di Palazzo Grazioli passando per le troppe leggi ad personam, le strabordanti sparate, le eccessive barzellette, le incalcolabili gaffes, le infinite chiacchiere e le innumerevoli composizioni con il musico Apicella. Nulla si è inventato l’autore, a parte qualche grottesco vagheggiamento, lo stretto indispensabile prima di reimmergersi nella materia con quell’esattezza che si diceva e che idealmente rinvia ad articoli, testi, documenti, note, glosse.
E forse Cornaglia non se ne rende conto fino in fondo, ma in questa Berlusconeide che si sarebbe potuta chiamare Berlusconiade e che per un attimo ha rischiato di chiamarsi Sberlusconeide, si certifica anche il matrimonio tra poesia e ingegneria; nel senso che la vocazione lirica e satirica non si esplica solo a partire da un sistema cadenzato, armonico e musicale, ma deve anche fare i conti con i contesti, gli spazi e i materiali dati.
Il risultato è appunto una grande costruzione in versi. E qui sorge un punto interessante, e forse anche po’ imbarazzante giacché l’arte del costruire si pone all’opposto della pratica del distruggere. Per cui, contro ogni desiderio del suo autore, tale è l’ironica compiutezza dell’opera che Berlusconi – a cui pure non piacerà affatto – non ne esce per nulla distrutto. Anzi, da un certo punto di vista è questo poema a suo modo, e quindi alla rovescia, un autentico monumento a un personaggio mitico, a un capo politico astuto e spregiudicato. O se proprio si vuole è un’ode amara alle debolezze degli italiani che a Berlusconi credono e la leggenda di Berlusconi continuano ad incrementare, non di rado contro i loro stessi interessi.
E d’altra parte, non si intende qui entrare nella logica delle tifoserie. Proprio no. Attardarsi a valutare se un’opera del genere porti o tolga acqua al mulino del Cavaliere significherebbe, come minimo, ridurne la sorpresa e l’originalità. Contro Berlusconi, nell’arco ormai di un quindicennio, sono stati prodotti film, libri, documentari, pamphlet, spot, romanzi, canzoni, programmi televisivi, commedie, musical, migliaia di video su YouTube, parodie di ogni genere e grado, oltre a fumetti e cartoni animati. Per cui, se proprio non se ne può fare a meno, si notifica agli ultrà dell’antiberlusconismo che adesso c’è anche un poema.
Ma a chi voglia piuttosto soffermarsi sulla ripresa inaspettata di quest’ultimo genere letterario, a chi resta colpito dal felice e bizzarro anacronismo, si può azzardare che il ritorno del poema è in linea con tanti altri elementi che riemergono oggi da un passato tanto più lontano quanto più foriero di novità per l’oggi.
Da questo punto di vista la Berlusconeide di Cornaglia si configura come l’ultima discendenza del poema burlesco, satirico ed eroicomico fiorito nel XVII secolo.
Molto di quel periodo sembra in effetti ritornato in voga nella vita pubblica italiana, e in particolare attorno al potere berlusconiano con il suo dispiego di miti, simboli e liturgie del tutto compatibili, anzi forse proprio alimentati dalla politica pop, così attenta all’esibizione spettacolare della sovranità post-moderna. Dunque re che vivono all’interno di dimore fantastiche o in castelli con giardini e laghi su cui scivolano magnifici cigni, “Sì, cigni – si ascolta per bocca del Cavaliere nelle irresistibili registrazioni di Patrizia D’Addario – ma poi li tiriamo fuori perché vogliamo avere l’acqua pulita per fare il bagno”; e feste e giochi da stupire qualsiasi ospite o visitatore, e quindi troni e tronetti in prima e seconda serata, da Bruno Vespa ad Anna La Rosa, incoronazioni virtuali, bagni di folla con foto dal telefonino, agiografie spedite per posta sotto elezioni, predicatori alla Celentano o alla Beppe Grillo, lotte per le investiture ministeriali, scranni a Montecitorio, Palazzo Madama e Strasburgo come quei benefici che i signori accordavano ai loro protetti cinque secoli orsono.
E’ impressionante notare come la vertiginosa velocità del cambiamento tecnologico abbia finito per alimentare e rappresentare, nella sua cornice mediatica, una vita pubblica ormai del tutto svuotata dalle ideologie nella quale però vanno affollandosi giuramenti, suppliche, maledizioni, roghi, processioni, ordalie, stemmi, spadoni, reliquie, amuleti, gogne, crociate. Un complesso di modalità espressive che riaffiora in particolare nel principato e nella signoria di Berlusconi che non a caso ritrova nella corte il centro da cui s’irradia il potere e in cui trovano posto cortigiani e cortigiane (altrimenti dette escort), cuochi e giardinieri di Sua Maestà, medici recanti elisir di lunga vita, paggi televisivi e ancora servi, guardie, buffoni, ruffiani e ciarlatani di ogni risma.
Già nel 1994 uno dei fondatori della Repubblica, don Giuseppe Dossetti, profetizzò a proposito del Cavaliere la nascita di un principato aziendale, e aggiunse: “Con coreografia medicea”. Bene, “mediceo” è detto l’orto delle piante odorose e officinali che Berlusconi, sovrano munifico, ha impiantato nel parco della sua dimora in Sardegna, non lontano dal vulcano artificiale che erutta fuochi d’artificio come a suo tempo sarebbe piaciuto ai Papi e al Re Sole.
Questo evoluto ritorno di antichi segni del potere è piuttosto riconoscibile nella cronaca di tutti i giorni, sia pure in forma di maschera. Ma certo Cornaglia lo coglie per la semplice ragione che la sua opera, con tanto di vena satirica, si colloca nell’occhio e nel cuore di questa temperie che senza troppe difficoltà si potrebbe classificare a far data dal 1600.
Ed è questo appunto il secolo in cui, estenuatosi il poema cavalleresco, fiorisce quello eroicomico e più in generale la poesia burlesca alla quale la Berlusconeide, con i suoi endecasillabi, assomiglia fin dal titolo, tanto che proprio allora si danno alle stampe, da parte di Giovanni Battista Lalli, la “Franceide”, la “Moscheide” e una ”Eneide travestita”. Il secolo del Tassoni che ne “La secchia rapita”si ripropose di mescolare il piccante e il ridicolo con il grave e il serio; come pure de “Lo scherno degli Dei” del poeta giocoso Francesco Bracciolini e delle stesse stralunatissime parodie di Giovanbattista Marino.
Perché poi forse anche la letteratura, come la figurazione del potere, va e viene, torna e ritorna, seppure a beneficio dei lettori. Che saranno grati in questo caso anche a Carlo Cornaglia, ingegnere di rinnovata tradizione eroicomica, che sulla scorta di Alexander Pope (1688-1744) ha esercitato con meticoloso ardore ai danni del suo Cavaliere the art of sinking in poetry, l’arte di colare a picco in poesia. Piccola grande rivincita della parola musicale e beffarda, a suo modo un lumicino nella notte del decoro e dell’intelligenza.