Qui finisce l’avventura

Prefazione

di Marco Travaglio

Quando ho letto i primi stornelli antiberlusconiani di Carlo Cornaglia, mi sono immaginato un giovanotto un po’ sgarrupato, un rapper, un graffitaro, un tipo alla David Riondino. E quando mi hanno detto che si trattava di un ingegnere chimico del Politecnico di Torino, già allievo del mitico Liceo D’Azeglio, già direttore generale di un’importante azienda, già progettista di impianti di potabilizzazione, disinquinamento e preparazione delle acque per centrali elettriche, ho pensato a uno scherzo. O a un caso di omonimia. Poi l’ho conosciuto. Incredibile, ma era tutto vero. Carlo Cornaglia è, o almeno era, una persona seria. Poi è arrivato Berlusconi. E, fra i tanti danni che prima o poi pagherà, ha fatto anche questo: trasformare un onorato top manager torinese, famiglia regolare, tre figli, bella casa in campagna, in un assatanato produttore di ottonari in rima baciata sulla cadenza del signor Bonaventura di Sergio Tofano. Una volta, mi ha confidato, votava Partito repubblicano. Era un ultramoderato. Ora è un “demonizzatore” in servizio permanente effettivo. Ha letto tutto quel che è stato scritto del Cavaliere: saggi, biografie, pamphlet. Dal 1994 passa giornate intere in biblioteca a documentarsi, a consultare microfilm e vecchie collezioni di stampa. Setaccia atti giudiziari. Ogni mattina la moglie lo vede rincasare con un mucchio di giornali che legge e ritaglia. Poi traduce in versi.
La malattia manifestò i suoi primi sintomi trent’anni fa, quando l’ingegnere infilava nella calza della Befana dei suoi tre figli qualche stornello. Niente di serio: semplici avvertimenti in versi ai suoi ragazzi che, se non stavano bravi, arrivava il carbone. Gli amici lo seppero e gli chiesero qualche poesiola scherzosa per le feste in compagnia. La patologia si aggravò e precipitò irrimediabilmente dieci anni fa, al momento della “discesa in campo”. Le irresistibili gesta dello Statista di Milanello suscitavano in lui singulti e convulsioni di rabbia e divertimento, accompagnati da fastidiose irritazioni cutanee. Cornaglia tentò di combattere la strana sintomatologia con l’unico antidoto che aveva in casa: le rime. E constatò che funzionava. Nel 2001, il ritorno di Berlusconi più strabordante che mai lo costrinse ad aumentare le dosi. E quando, a un mese dalle elezioni, ricevette a casa il leggendario fotoromanzo elettorale “Una storia italiana”, distribuito a milioni di famiglie, rischiò il soffocamento. Se ne riebbe soltanto con una terapia d’urto: la pubblicazione di un contro-fotoromanzo dal titolo “Sua Presidenza”, l’opera prima cornagliesca, la vita dell’Unto del Signore in ottonari, dalla culla a Palazzo Chigi.
Molti amici gli tolsero il saluto, qualche parente finse di non conoscerlo. Ma in compenso le irritazioni cutanee scomparvero, a poco a poco svanirono anche i singulti di rabbia e le convulsioni di riso. Cornaglia era guarito. La berlusconite però è sempre in agguato. Così, a scopo preventivo, l’ingegnere torna in libreria con questo nuovo poema sulle ultime gesta del suo eroe prediletto. Ora naturalmente qualcuno salterà su a dire, tutto serioso, col ditino alzato, che non bisogna ridere di Berlusconi: perchè bisogna dialogarci, o perchè è una figura tragica. Sono dieci anni che i suoi avversari lo combattono col dialogo e con la faccia seria. E infatti pèrdono. Non riescono più a ridere delle cose ridicole, a indignarsi delle cose gravi, a stupirsi delle cose strane che ogni giorno accadono in questo enorme manicomio organizzato che è l’Italia. Non si sono mai domandati perchè il Cavaliere e i suoi discepoli temano così tanto la satira, al punto da epurarne tutti i migliori rappresentanti, da Fo a Luttazzi, da Sabina Guzzanti a Paolo Rossi, per non parlare dell’eterno epurato Beppe Grillo? E’ un caso se Enzo Biagi fu licenziato in tronco dalla Rai dopo un’intervista a Roberto Benigni? Poco prima di andarsene, Indro Montanelli disse che “l’unico modo per combattere Berlusconi, oltre a lasciare che si distrugga da sè, è la satira”. E’ quel che ha dimostrato, scientificamente, Alessandro Amadori nei suoi saggi sulle tecniche di comunicazione del Cavaliere: “Berlusconi va preso sul serio solo quando scherza, perchè solo quando scherza dice la verità”. E’ quel che scrive da anni Claudio Rinaldi, implorando le opposizioni affinchè “adottino un linguaggio altrettanto incisivo, e mostrino la stessa irridente disinvoltura” del premier. Ma lo scriveva già Leopardi nello Zibaldone: “Delle cose veramente ridicole nella società o negl’individui è ben raro trovar chi ne rida. E s’alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l’aiuti a farlo, e che gli dia ragione. O che pur senta la causa del suo riso. Gli uomini per lo più ridono di cose che in effetto son tutt’altro che ridicole. E spesso ne ridono per questo appunto che non sono ridicole. E tanto più ne ridono quanto meno elle son tali”. Era il 21 luglio 1823. E Leopardi non aveva conosciuto Berlusconi.

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